Utero in affitto: Quando Catone il Giovane regalò un figlio al suo amico
A proposito della polemica sulla maternità surrogata, tra gli argomenti a favore del divieto di concludere i contratti di cd. “affitto dell’ utero” leggo che si tratterebbe di una pratica che «contrasta con lo sviluppo della civiltà europea…che non vuole la vendita di organi né di altro materiale del vivente» (Luisa Muraro).E questo mi fa inevitabilmente risalire, col pensiero, a quella che –fatte le dovute differenze- possiamo senz’altro definire come la preistoria di quella pratica, a illustrare la quale niente di meglio di una storia:
Catone il Giovane, sul finire della Repubblica, «aveva sposato Marzia, la figlia di Filippo, quando era ancora molto giovane; era molto attaccato a lei, e da lei aveva avuto dei figli. Tuttavia, la diede a Ortensio, uno dei suoi amici, che desiderava avere figli ma che era sposato a una donna sterile. Dopo che Marzia ebbe dato un figlio anche a lui, Catone la riprese di nuovo in casa, come se la avesse prestata»(Appiano, Bell. Civ., 2, 14, 9).
Cosa pensasse Marzia della situazione non viene detto, né in Appiano ne in altre fonti: per quanto ne sappiamo, la sua opinione non venne neppur richiesta. Tutto quello che Catone fece, prima di cederla fu chiedere il parere di Filippo, il padre di Marzia, che acconsentì.
Una storia per noi singolare (che cessa di apparire tale se la si colloca in un’epoca in cui cedere l’ utero della moglie a fini procreativi non era né eccezionale né scandaloso) che mostra che in materia di cessione dell’utero la nostra civiltà si è evoluta in una prospettiva che (potrà sembrare provocatorio) porta a vedere la pratica attuale dell’ “affitto” come una delle conseguenze del cammino fatto dalle donne, nel corso di un paio di millenni, per conquistare la dignità di persone capaci diautodeterminarsi. II che non significa sottovalutare le implicazioni psicofisiche di una gravidanza su commissione, delle quali, pur essendo contraria al bando sostenuto da una parte del femminismo, sono perfettamente consapevole. Significa solo che oggi una donna –dopo millenni in cui altri lo hanno fatto per lei, anche semplicemente scegliendole un marito- può decidere di essere padrona della propria vita anche, se crede, mettendo il proprio corpo a disposizione chi non riesce ad avere altrimenti un figlio: che lo faccia a pagamento e gratuitamente, da questo punto di vista, ha rilevanza solo se chi “affitta” il proprio corpo è spinto da necessità economiche ed esistenziali tali da cancellare eticamente il valore della sua volontà. Ma chi oggi si oppone all’ipotesi che l’ “affitto” venga considerato un atto lecito contrattuale lo fa indipendentemente da questo problema, ritenendo inammissibile anche un accordo liberamente concluso da ambedue le parti. Con la conseguenza, se questa ipotesi venisse accolta, di favorire il mercato clandestino, con tutte le conseguenza del caso, tra cui la perdita da parte delle madre surrogata di qualunque tutela giuridica nei confronti di eventuali tentativi di non rispettare i termini dell’accordo; o, per fare un altro esempio, di non poter inserire nelle clausole del contratto il diritto all’assistenza medica per tutto il periodo della gravidanza e per eventuali complicazioni post partum, come è possibile fare e viene fatto nei paesi che non criminalizzano questi accordi.
Tra gli argomenti contro l’”affitto” leggo anche che la relazione materna è una delle cose che favoriscono la civiltà e che come tale va custodita e protetta: come non essere d’accordo? Ma bisogna intendersi sul significato di “relazione materna”. Accanto a quella che inizia nell’utero, la cui importanza non intendo in alcun modo sottovalutare, esiste una relazione materna che non è legata necessariamente alla gravidanza e al parto: è quella altrettanto importante che nasce dall’ amore, accudimento, dall’educazione e dalla condivisione dei valori. Da tutto quello, insomma, che anche una madre che non ha partorito trasferisce al figlio. È l’idea fortemente limitativa di genitorialità che sta alla base delle obiezioni alla surrogazione che non riesco a capire e a condividere. Insomma, se è vero come si diceva nei tempi ruggenti del femminismo che«l’utero è mio e lo gestisco io» perché mai non dovrebbe essere lecito gestirlo per contribuire a soddisfare, a pagamento o per generosità, il desiderio di genitorialità di chi non può soddisfarlo altrimenti?
Fonte: http://27esimaora.corriere.it/articolo/quando-catone-il-giovane-regaloun-figlio-al-suo-amico/