Perché ho dato un figlio a un’altra

Abbandonata appena nata da due genitori troppo fragili per farsi carico di una figlia,Mandy Storer, lunghi capelli castani sul viso paffuto, è stata cresciuta a Daton, Ohio, dai nonni paterni che le hanno lasciato una certezza: la genitorialità non è legata alla genetica, all’età, al sesso ma è una questione di responsabilità, cura e amore.Per questo non si è fatta nessun problema a offrirsi come madre surrogata quando ha deciso di non occuparsi più di pubbliche relazioni e di dedicarsi alla famiglia: al marito sposato da ragazzina e ai suoi due figli. «Avendo una zia lesbica ho visto le difficoltà che lei e sua moglie hanno avuto con l’adozione, le domande intime, le pratiche burocratiche: è stata una procedura umiliante», racconta attraverso Skype dagli Stati Uniti: «La maternità surrogata mi ha cambiato la vita in meglio permettendomi di restare a casa a prendermi cura dei miei due figli. Mi ha anche offerto un lavoro a tempo pieno, sempre da casa, per l’ufficio stampa di “Growing Generations”, una delle maggiori agenzie di maternità surrogata degli Stati Uniti per cui curo un blog molto letto».

Storer è una delle centinaia di madri che ogni anno negli Usa e in Canada decidono di portare avanti una gravidanza per conto terzi. Si fanno chiamare mamme-cicogna o mamme di pancia. Sono donne quasi sempre sposate che hanno ricevuto il dono sempre meno comune della fertilità e di gravidanze senza complicazioni. Donne spesso cresciute in famiglie allargate o spezzate, che hanno sperimentato sulla propria pelle la differenza tra maternità naturale e maternità affettiva e che magari hanno asciugato le lacrime di amiche e sorelle che volevano una famiglia e non riuscivano ad averla. Non sono donne benestanti nell’America dei Bill Gates e dei banchieri ultra-milionari di Wall Street: il loro reddito talvolta copre a fatica le spese di un asilo nido. Ma non sono nemmeno disperate. C’è chi ha una laurea in materie umanistiche o sociali; chi è insegnante o infermiera oppure operatrice del sociale. Tutte abituate da sempre a stare in mezzo ai bambini, ai problemi quotidiani, alla fatica di crescere e amare in un mondo in cui la famiglia Mulino Bianco è un lusso per pochi.

«Se penso al mio padre biologico mi sento male», sospiraCarrie Sylvester, 41 anni, dalla sua casa poco fuori Portland dove si è trasferita dalla California con la famiglia per risparmiare sul costo di una vita sempre più cara per la classe media americana: «A crescere me e le mie sorelle come fossimo figlie sue è stato il terzo marito di mia madre, discendente di italiani sbarcati in America nel secolo scorso». Sposata da 22 anni e con due bambini di 8 e 3 anni, Sylvester è alla terza gravidanza surrogata insieme al marito. Perché incinta è la donna ma la gravidanza surrogata è nei fatti una faccenda familiare che coinvolge logisticamente ed emotivamente mariti e figli, abituati senza traumi a non confondere una pancia con un fratello o una sorella.

Infermiera degli animali, Sylvester per dieci anni ha lavorato con cuccioli e bambini nelle scuole. Poi la scelta di fare figli e rimanere a casa: «Fin da prima di avere figli volevo diventare surrogata e così, anche un po’ incoscientemente, l’ho fatto subito dopo l’arrivo del primo figlio, senza pensare se avrei voluto altri figli miei o no. Sono andata avanti alternando un figlio mio e uno per conto terzi. Ma a darmi la spinta a farlo è stata una mia sorella maggiore che per rimanere incinta ci ha messo sei anni, tanti soldi e tanti trattamenti e alla fine ha avuto un figlio con un grave handicap che a 21 anni ha la testa di un bambino di tre».

Sylvester parla senza filtri, a differenza di altre madri surrogate preoccupate dell’immagine che possono proiettare all’esterno verso un mondo, quello europeo, pregiudizievole verso donne come loro. Del fatto che riceve un compenso per le sue prestazioni non fa misteri. Con i soldi delle gravidanze lei e il marito, un impiegato al supermercato Costco, vogliono realizzare il loro personalissimo sogno: investire in una lavanderia a gettoni con cui incrementare il reddito familiare e avere un piccolo anticipo con cui comprare finalmente casa. «Non ho sensi di colpa sul denaro che ricevo: perché domandarlo? Offro un servizio a chi non ha la mia stessa fortuna di rimanere incinta all’istante e nel farlo metto a disposizione il mio corpo e la mia famiglia per oltre un anno. Certo che lo farei anche gratis ma solo per persone a me molto vicine. In quel caso non avrei dubbi».

Negli Stati Uniti la maternità surrogata, così come ogni altra forma di maternità, da quella “naturale” all’adozione, è un business bene organizzato e in crescita, alimentato dai divieti che pongono Paesi come l’Italia. Nel giro di tre anni infatti i bimbi nati con questa tecnica sono triplicati, salendo a quota duemila. La madre surrogata riceve tra i 27 e i 34 mila dollari come compenso, a seconda dello Stato in cui vive e del numero delle gravidanze precedenti, frazionate nei vari mesi. Ma il costo per chi aspetta i pargoli è molto più alto perché dovrà coprire anche la donazione dell’ovocita (la madre di pancia non è mai anche la madre genetica), le spese mediche della surrogata, quelle legali per la stesura del contratto, quelle dell’agenzia che mette in contatto le due parti e poi infinite altre spese quotidiane – dai viaggi in clinica ai vestiti per la maternità alla baby-sitter che si prenderà cura dei bambini mentre la madre si assenta da casa. Il totale si aggira tra i 130 e i 170 mila dollari: la maternità surrogata più cara del mondo. Ma anche la più corretta e trasparente. Sia la madre-cicogna che i futuri genitori si scelgono vicendevolmente con grande cura per riuscire a individuare persone il più possibile compatibili. E non si tratta del colore degli occhi del bambino ma invece dei valori etici e dello stile di vita degli adulti. «Trovare la coppia di genitori adatta ad una madre surrogata è un po’ come unire due pezzi di un puzzle», osserva Storer.

Dalla cucina della sua casetta in Canada, dove la maternità surrogata è permessa dal 2004 solo a titolo gratuito, Jasmineè d’accordo: «So bene che in molti considerano noi madri surrogate delle schiave o peggio donne incapaci di intendere. La cosa mi ferisce. In realtà sono i critici a non capire che si tratta di una nostra scelta e che la nostra vita non gira intorno a quella dei genitori del figlio che portiamo in grembo, ai quali chiediamo invece di fidarsi di noi». Una pausa e poi entra nel dettaglio delle condizioni che detta a chi vuole lavorare con lei: «Mi presto solo per coppie gay perché non vorrei mai trovarmi in una potenziale situazione melodrammatica con la madre in attesa che per qualche motivo ha scatti di gelosia nei mie confronti. Con due padri è tutto più facile».

Ad essere molto più semplice è soprattutto la relazione che si forma tra la madre-cicogna e i padri in attesa. Una relazione sottovalutata. Questi sanno bene che la loro lei è spesso la sola speranza di paternità e che inevitabilmente diventerà un piccolo ma imprescindibile tassello della loro famiglia: i futuri bambini di due padri sanno sempre chi è la madre di pancia. Non c’è confusione sulle origini. Non ci sono bugie. E con le madri surrogate i piccoli possono sviluppare nel tempo un legame che non è materno ma è familiare, come quello con una zia lontana. Se poi madre surrogata e genitori condividono la stessa visione etica del mondo, allora il legame tra adulti che si crea in quell’anno di attesa può diventare qualcosa di molto profondo. «Ho sempre scelto padri che la pensassero come me: la sindrome di Down non può essere una ragione di aborto e sono decisamente contraria alla riduzione selettiva», continua Jasmine dal Canada dove le surrogate sono poche, difficili da trovare e molto richieste.

A diventare presenze importanti nella sua vita sono stati i primi genitori scelti da Kelly Enders-Tharp: in questo 2016 solo agli inizi, sono passati a salutare uno dei tre figli di lei, il più piccolo, Sawyer, che il cancro si sta portando via a nove anni. Sanjeev and George ci sono sempre stati nella vita di Kelly da quando nel 2008 lei ha messo al mondo le loro gemelle al termine della prima delle sue tre gravidanze surrogate: «Non ho soldi e non posso donare alla causa degli omosessuali ma certo posso mettere loro a disposizione il mio utero fertile». Sanjeev e George c’erano anche due anni fa al matrimonio quando lei, sposata per 18 anni con un uomo, ha detto sì ad una donna. «L’omosessualità ce l’ho sempre avuta in testa in un modo o in altro ma volevo avere una famiglia, dei figli e mi sono sposata», racconta parlando dei suoi studi: dalla laurea in Scienze e Sessualità al master in Pedagogia con tesi sugli studenti gay. Con lei Sanjeev e George avrebbero voluto dare alla luce un altro bimbo l’anno scorso. Kelly e sua moglie avevano anche fatto le analisi mediche preliminari per andare avanti con la quarta gravidanza surrogata ma improvvisamente è arrivata la brutta notizia. Nel giro di pochi mesi, capite le condizioni critiche di Sawyer, i due papà potenziali hanno rinunciato. Se non sarebbe potuta essere Kelly la mamma di pancia, questa donna dai dolci occhi scuri e una vita più complicata di altre, allora niente terzo figlio.

A non aver mai voluto un figlio è invece Hannah Cantafio, una donna 36enne di Calgary, nello Stato dell’Alberta. Cresciuta in una fattoria tra le pianure orientali del Canada in una famiglia dove vacanza fa rima con lusso e la mamma gli ortaggi li trovava nei campi, non al supermercato, Cantafio fin da ragazzina ha giurato a se stessa che da grande sarebbe stata libera. Libera da una vita di quasi povertà. Libera da un uomo a cui rendere conto. Libera da una maternità che spesso si traduce in privazione. Ma un conto è crescere un figlio, un altro portarlo alla luce. Una sera uno dei clienti dell’albergo che lei ora gestisce, un padre, le confessa che sua moglie non dorme più. Da una vecchia fecondazione in vitro avevano ottenuto due bambini ma in freezer è rimasto un ovocita che la moglie sente come figlio mai nato. Una seconda gravidanza però le costerebbe la vita. «Potrei averla io, mia madre e mia sorella sono molto fertili», suggerisce Cantafio. Detto, fatto. Un ovocita: una gravidanza per conto terzi. Nessuno scambio monetario: «Il mio avvocato mi spiegò che perfino un cambio di gomme della mia jeep è considerato un pagamento e non un rimborso spese, dunque illegale. E poi in questa mia scelta i soldi non sono entrati affatto. Ho voluto provare il miracolo di dare alla luce un figlio», confessa lei con voce rauca: «Non ho intenzione di rifarlo ma sono contenta di averlo fatto». Una pausa. «La mia unica paura era che l’esperienza mi avrebbe fatto desiderare dei figli miei. Ma sono passati cinque mesi e non è successo».

La bambina saprà come è venuta al mondo e Cantafio è già diventata “zia Hannah”, come lei stessa ammette con un sorriso: «Beh sì, mi piacerebbe rimanere in contatto con la famiglia». Un desiderio questo molto forte che hanno in comune tutte le madri surrogate, sia chi l’ha realizzato sia chi non c’è riuscita. Un sentimento che forse non è materno ma è certamente molto umano.

Fonte http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/02/19/news/perche-ho-dato-un-figlio-a-un-altra-1.251081